Nucleare: cominciamo a parlarne

La Westinghouse, quartier generale in Pennsylvania, proprietà congiunta del gruppo di private equity Brookfield e del minerario di uranio Cameco, non poteva che sperare di meglio di un ordine esecutivo della presidenza a stelle e strisce per costruire 10 reattori nucleari negli USA allo scopo dichiarato di rilanciare l’energia nucleare come fonte di produzione di energia pulita (ovvero senza emissione di CO2). L’ordine è motivato da un atteso boom edilizio negli Stati Uniti che si stima possa incrementare – da solo – la domanda di elettricità del 25%; ma soprattutto dall’esigenza di alimentare sempre più datacenter dedicati allo sviluppo dell’intelligenza artificiale (AI), settore nel quale gli Stati Uniti rischiano di perdere la sfida con la Cina. Oltre al caso DeepSeek, che è solo un campanello d’allarme, ci sono segnali ben più pesanti che giustificano una preoccupazione fondata per un posizionamento strategico della Cina su questo fronte: la costruzione di dieci nuovi reattori nucleari di grandi dimensioni solo lo scorso anno effettuati dal gigante giallo. Tant’è vero che l’ordine esecutivo del Presidente parla proprio di 10 nuovi reattori per un costo stimato di 75 miliardi di dollari, che Westinghouse conta di produrre in toto utilizzando i modelli AP1000 di cui dichiara di avere una solida esperienza di progettazione, realizzazione, consegna ed installazioni in situ. Il reattore ha la capacità di produrre 1000 MW all’anno sufficiente per alimentare circa 500’000 abitazioni.

È un’opportunità unica perché la società non ha praticamente rivali. I cinesi della China General Nuclear Power Group e la Rosatom, azienda statale russa di primaria importanza per nel campo delle tecnologie nucleari, sono automaticamente escluse per questioni geopolitiche, principalmente. La GE Vernova (in joint venture con la Hitachi) non produce più grandi reattori da decenni; similmente la francese EDF si è ritirata un decennio fa dal mercato USA dei grandi reattori e la coreana Kepco ha un solo progetto approvato dalle autorità statunitensi ma non ne ha mai, di fatto, costruito uno.

Ma ci sono anche delle ombre dietro a questa opportunità che consistono nei ritardi di costruzione rispetto ai tempi prospettati e soprattutto di sforamenti significativi nel preventivo costi. L’AP1000 della centrale nucleare di Vogtle, in Georgia, ha richiesto 7 anni in più rispetto ai tempi attesi con un aggravio di costi di 17 miliardi di dollari rispetto al preventivato. Questo ha raffreddato gli entusiasmi per i grandi reattori soprattutto da parte di grandi investitori come Microsoft, Google ed Amazon interessati ad alimentare le loro ricerche nel campo AI e soprattutto rischia di far perdere anche questa sfida con la Cina.

Ma come si sta muovendo il resto del mondo? Abbiamo assistito proprio la scorsa settimana ad una svolta storica della Banca Mondiale che ha eliminato il divieto a finanziare progetti incentrati sull’energia nucleare: l’ultimo (co)finanziamento erogato dall’istituzione a favore della centrale nucleare sul fiume Garigliano in Campania (Italia) risale al 1959 ed ammontava a 40 milioni di dollari. Da allora il timore della proliferazione nucleare a scopi bellici (la guerra era terminata da poco) e le varie catastrofi succedutasi partendo dalla fusione del nocciolo di Three Mile Island negli USA nel 1979, passando per Chernobyl nel 1986 fino alla più recente Fukushima (2011) hanno statutariamente vietato a questo importante finanziatore di sostenere qualunque progetto nucleare nel mondo. Dunque cosa è cambiato? Innanzitutto la pressione dei suoi maggiori azionisti, Stati Uniti in primis, ma non meno importante il Giappone a cui si è aggiunta – con il recente cambio di governo – la Germania da tempo contraria a questo tipo di iniziative. E poi c’è la previsione del raddoppio della domanda di energia elettrica dei paesi in via di sviluppo attesa per il 2035: un lasso di tempo veramente breve dunque. La Banca Mondiale ha stretto un accordo di collaborazione con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), il che significa che si punta sul nucleare anche a fini di una decarbonizzazione “rapida e profonda”. Questo significa che l’energia nucleare (proprio per l’assenza di emissioni di CO2) viene percepita come energia pulita. Ci aspettiamo quindi che ben presto possano essere emesse certificazioni verdi come le garanzie d’origine (o i suoi omologhi internazionali, gli I-REC) per ogni MWh di elettricità prodotto col nucleare. Ovviamente il nucleare ha anche un’altra caratteristica fondamentale: è una fonte continua di produzione e questo contribuisce a creare un’offerta base costante che contribuisce a stabilizzare le reti distributive e che può essere integrata nei suoi picchi dalle produzioni alternative o modulata in funzione della erraticità e non programmabilità di queste fonti. 

Ma attenzione ai facili entusiasmi. L’apertura della Banca Mondiale è in realtà molto cauta. Se da un lato l’accordo con l’AIEA dimostra una particolare attenzione alle tematiche ambientali, dall’altro lato dimostra una forma di tutela che l’istituto intende darsi verso una possibile escalation che favorisca utilizzi bellici di questi finanziamenti. A corroborare questa prudenza riteniamo importante menzionare il fatto che la Banca Mondiale non finanzierà nuovi impianti, ma solo riattivazione di impianti spenti o ammodernamento di quelli funzionanti, ma datati, oltre al supporto esplicito ai piccoli o micro reattori di cui parleremo tra un attimo. 

Questa scelta vuole essere anche un incentivo per altre istituzioni come la Banca africana di sviluppo e la Banca asiatica di investimento (ADB) a fare altrettanto. Ed infatti la seconda si è anch’essa attivata spronata dai suoi due maggiori azionisti: Usa e Giappone. Anche per questa istituzione vigeva il divieto di finanziamento al nucleare, blocco che i vertici stanno valutando di rimuovere. La moral suasion del Giappone sembra particolarmente efficace. Dopo Fukushima Daiichi, il Sol Levante aveva chiuso tutti i 54 reattori attivi che fornivano il 30% del fabbisogno di energia del paese. Ad oggi circa un quarto dei reattori è stato riattivato e si punta all’uso massiccio dell’energia nucleare da qui al 2040. La motivazione principale risiede nella domanda crescente dell’industria dei semiconduttori e dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale.

E per ultima, ma non meno importante, l’Europa. Il vecchio continente ha un evidente problema geopolitico e strategico: la dipendenza energetica dalla Russia. Se da un lato ha trovato una soluzione all’approvvigionamento dei combustibili fossili (gas, in primis) che dovrebbe azzerarsi entro il 2027 dall’altro la catena di approvvigionamento dell’uranio e molto più complessa e la dipendenza dalla tecnologia nucleare russa si rivela problematica. L’UE dispone di un parco impianti di 101 reattori nucleari di cui 19 sono i VVER di fabbricazione sovietica concentrati principalmente in Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca, Bulgaria e Finlandia. Le riparazioni, ammodernamenti e sostituzioni di moduli di questi reattori sono segreti industriali russi e questo crea una dipendenza totale. Inoltre Rosatom è estremamente competitiva sia sull’estrazione che sulla conversione ed arricchimento dell’uranio ed i VVER funzionano solo con uranio arricchito. 

In realtà per quanto riguarda la costruzione di grandi centrali l’UE può contare sul solido know how francese (e tedesco), mentre – sul ciclo produttivo dell’uranio – pur essendo in ritardo rispetto ai concorrenti cinesi e soprattutto russi sta a grandi passi recuperando posizioni, principalmente con società come Orano ed Urenco. Pur non disponendo di miniere di uranio, l’Unione sta diversificando l’approvvigionamento stringendo accordi con Kazakistan, Canada e Niger (settimo produttore mondiale). Il problema è quindi contingente e consta nell’opposizione, anche giustificata, dei paesi su citati che dipendono dalla tecnologia russa. Per convincerli l’Unione ha due armi a disposizione: le sanzioni o gli incentivi commerciali. La prima misura ha due difetti: richiede l’unanimità e come le altre sanzioni si rivela poco efficace (blocchi all’importazione poi sarebbero eludibili con il supporto della Cina). Rimane una politica di dazi e tariffe commerciali capaci di generare flussi di cassa da reimmettere nel sistema per finanziare il distacco dal fornitore russo (e questa per essere approvata non richiede l’unanimità).

Abbiamo fino ad ora parlato di grandi reattori nucleari. Eppure fino a pochi giorni fa si parlava abbondantemente dei piccoli reattori, quelli di nuova generazione. Che fine hanno fatto? Sono semplicemente stati “offuscati” dalle recenti notizie (alcune degne di nota come abbiamo visto), ma ci sono, non sono spariti ed anzi il dibattito, soprattutto in seno ai grandi finanziatori li vedono protagonisti al pari delle molte società che abbiamo precedentemente citato a cominciare da Westinghouse con il progetto eVinci.

Immaginiamo una batteria grande quanto un container che dura anche 20 anni, che può essere interrata o installata sul fondale marino e che genera una potenza di 20 MW all’anno (capace di fornire elettricità per 20’000 abitazioni circa). Questo è un micro-reattore ovvero una centrale nucleare che non ha bisogno di personale dedicato ad un impianto solo installato vicino a corsi o bacini d’acqua per esigenze di raffreddamento, che occupa svariate porzioni di terreno e che deve essere difesa da attacchi militari. Un micro-reattore non ha tutti questi “difetti”, produce solo meno energia, ma nulla vieta di affiancare più micro-reattori per produrre la stessa potenza di una grande centrale nucleare. Inoltre i micro-reattori sono modulari il che significa che si possono sostituire i pezzi sia in loco che in fabbrica (ma il reattore si può trasportare) ed inoltre non si raffredda ad acqua, ma utilizzando sodio liquido: ha pertanto un’impronta idrica nulla. Infine lavora con combustibili come il Triso (nel caso di eVinci, che ha un altissimo punto di fusione e produce scarse scorie radioattive) o altri combustibili che si possono rigenerare (tramite reattori autofertilizzanti). Tutte queste caratteristiche appartengono anche agli Small Modular Reactor (SMR) che sono sempre reattori nucleari di nuova generazione ma che sviluppano potenza intorno ai 300 MW annui, ovvero circa un terzo di un grande impianto nucleare classico. Infine riducono le due classiche vulnerabilità dei reattori di grandi dimensioni: ritardi di consegna e sforamento del budget. Tra i fattori critici annoveriamo sicuramente la cybersecurity perché l’impianto viene monitorato tramite sensori che mandano informazioni via internet alle centrali di monitoraggio e richiede quindi un canale protetto di comunicazione. Meno problematica invece la sicurezza fisica (per esempio in caso di bombardamento a seguito di una guerra – di questi tempi non possiamo certo trascurare questo aspetto) in quanto si tratta di impianti di piccole dimensioni e quindi più facilmente gestibili da questo punto di vista.

 A detta degli esperti sembra che questi reattori siano particolarmente adatti ad alimentare o co-alimentare i datacenter, come pure piattaforme di estrazione petrolifera (o gas) offshore (non sempre allacciabili alla rete) o le miniere e tutti quei siti come i porti, i terminali, gli impianti petrolchimici, le isole e le località remote dove il rifornimento di gas o gasolio ha costi proibitivi. Noi riteniamo che gli attuali 80 progetti in corso per la costruzione di SMR, alla luce della situazione come sopra descritta, abbiamo ben più ampi ambiti di applicazione e quindi fonti di domanda. Lo dimostrano anche i recenti esempi di TerraPower ed Oklo, due società dedicate allo sviluppo di SMR a supporto dello sviluppo del AI finanziate rispettivamente da Bill Gates e Sam Altman. Questa è una tematica di investimento che riteniamo interessante, ma certo non ancora matura. Si prevedono tempi di sviluppo di 3/5 anni da ora. Nel frattempo ci ripromettiamo di approfondire in successivi post alcune caratteristiche tecniche che riteniamo particolarmente rilevanti per compiere scelte di investimento oculate.

Disclaimer

Il presente post esprime l’opinione personale dei collaboratori di Custodia Wealth Management che lo hanno redatto. Non si tratta di consigli o raccomandazioni di investimento, di consulenza personalizzata e non deve essere considerato come invito a svolgere transazioni su strumenti finanziari.